Vinta anche lei dalle suggestioni del Grand Tour che richiamano in Italia manipoli di intellettuali da tutta Europa, chi è l’avvenente signora che nel maggio del 1796, “carponi e con la torcia in mano”, come ella stessa si descrive per lettera a uno dei tanti amici, visita a Roma gli scavi archeologici di quella che molto più tardi si scoprirà essere la Domus Aurea di Nerone ? Dopo l’appagante tappa fiorentina che, grazie alla complessa rete di conoscenze, l’ha vista ricevuta dal Granduca di Toscana, Ferdinando III di Lorena, la dama ora dovrebbe proseguire per Napoli, dove è previsto anche il ricevimento alla corte del re, Ferdinando I di Borbone, Ercolano e Pompei. Invece il suo viaggio deve interrompersi. Dal Nord arrivano notizie allarmanti: l’armata francese di Napoleone è a Verona e sta per invadere i territori della Serenissima. E la donna è di Venezia. Da poco sposata con l’Inquisitore di stato, si chiama Isabella Teotochi Albrizzi.
Eccola dunque qui la musa ispiratrice di Ippolito Pindemonte che, con un nome legato alla cultura cabalistico-massonica cara agli arcadi, la ribattezzò “Temira”, ovverosia “Saggezza”. Ecco la “Laura” della prima stesura delle “Ultime lettere di Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo che, diciassettenne, la ebbe “amante per cinque giorni” ma poi “amica per tutta la vita”. La Storia della Letteratura italiana, pur riconoscendole il ruolo di titolare di uno dei salotti letterari più importanti dell’Europa del tempo, ma ignorandone quasi le numerose e degnissime prove di scrittura, di lei non dice molto di più. Della sua vita parlano invece centinaia di lettere e di documenti e, quanto alla sua appassionante bellezza mediterranea, niente di più eloquente dei versi dei poeti, delle righe dei tanti letterati ammessi alla sua piccola corte, divisa tra la dimora di Venezia e la villa di Mogliano (Treviso), e dei ritratti, naturalmente, fra cui un elaborato disegno (1816) di Antonio Canova e il delicatissimo olio (1792) di Elisabeth Vigèe-Lebrun, la contesa pittrice francese riparata in Italia all’arresto della sua protettrice, la regina Maria Antonietta.
Benvenuta perciò alla ricca biografia che, “senza alcuna pretesa di completezza” ma, dopo un decennale lavoro di ricerca storica, bibliografica, documentale e iconografica, il giornalista trevigiano Adriano Favaro è riuscito a mettere insieme e ci consegna col titolo “Isabella Teotochi Albrizzi” (Gaspari Editore – Udine – pagg. 257 – Euro 28,50).
Greca di Corfù dov’era nata il 30 aprile 1760, di famiglia nobile attenta all’educazione dei propri figli ma impoverita, a 16 anni Isabella Teotochi aveva sposato, impostole dai genitori, il trentunenne Carlo Antonio Marin, patrizio veneto di modeste sostanze e, come tale, ufficiale della Marina militare della Repubblica di stanza nelle isole jonie. A Venezia la ragazza, “dalle folte e inanellate chiome e dal vivo lampo negli occhi”, sbarca nella primavera del 1778. Ha già un figlio ma i disappori con il marito, che non ama e sente “vecchio, aumentano. Dopo una difficile convivenza con la parentela di lui, la coppia si trasferisce in San Salvador. Ed è dall’anonimo appartamento d’affitto di Calle “dele Balotte” che ha inizio la spettacolare scalata sociale di quella che Byron, esagerando forse un po’, definirà poi “Madame de Stael italiana”.
E’ infatti il padrone di casa, il patrizio Francesco Maria Soranzo, il primo ad accorgersi della vivacità intellettuale di Isabella ma conta anche l’entrata di Marin nella Magistratura della Quarantia Civil vecchia nel consentirle l’accesso ai salotti più esclusivi ed elitari della città. In particolare a quello del senatore Angelo Querini, figura di grande spessore intellettuale, massone che, dopo aver tradotto Voltaire ed essersi schierato con le idee di Scipione Maffei, è tra i pochi aristocratici del tempo a condividere apertamente, pagando anche con l’esclusione dai pubblici incarichi, quelle dottrine liberali che in Francia stanno per far scoppiare la Rivoluzione. Ed è in ambienti come questo che Isabella, posta di fronte allo scarto tra la sua cultura tradizionale e quella tutta nuova cui aderiscono gli spiriti più illuminati del continente, pur continuando a frequentare le feste e i ricevimenti che, nonostante l’imminente caduta fanno di Venezia la capitale del divertimento mondiale, legge, studia, ascolta e prende le distanze dallo stereotipo della nobildonna veneziana, o bigotta o licenziosa.
Quando, per il Carnevale dell’88, arriva il barone francese Dominique Vivant De Non, a Venezia Isabella Marin è già al centro dell’attenzione generale, non tutta e non sempre benevola. Quarantenne, uomo di mondo e di cultura, intenditore e trafficante d’arte, incisore, futuro organizzatore del Louvre con Luigi XVIII ma, prima, coordinatore e nazionalizzatore dei bottini artistici di Napoleone (tanto da guadagnarsi l’appellativo di “grande predatore”) e, al momento, imbattibile “charmeur”, De Non, presentandole dal Querini, ne diventa subito l’amante e, via via , il Pigmalione. Come fa osservare l’autore del volume, “sotto la sua guida Isabella acquisì quello slancio immaginativo e creativo che la porterà lontano”. Dimenticando la processione di esuli, fuorusciti, apolidi, greci, ebrei che quotidianamente cercano in lei un punto d’appoggio, nel giro di pochi anni infatti non c’è più personaggio, da Goethe a Chateaubriand, da Walter Scott a Lord Hamilton che, giunto a Venezia, non voglia conoscerla. Per fronteggiare la situazione Isabella però ha bisogno di tutto: abiti, acconciature, servitori….
Il modesto “casino” che è riuscita ad affittare in Frezzeria per gli incontri con De Non, ma dove si concede anche qualche “capriccio” come quello con il giovanissimo Foscolo, risulta ben presto inadeguato. E tale è anche la semplice casa di campagna del marito, in quel di Gardigiano (Treviso) da dove, tra maiali e galline, si scorgono le ville sontuose di quelli che a Venezia, nonostante la crisi, i soldi li hanno ancora o di già. I soldi, per l’appunto……… Nessuno più di lei l’ha capito, tanto che lo scrive: “Malgrado la nostra filosofia il maledetto articolo dinaro ci tormenta”. Marin, che per tutto questo tempo ha sfogato disappunto e gelosia sulla carta da lettere, vive del suo lavoro e De Non, che nel frattempo ha opportunisticamente borghesizzato il proprio nome in Denon, espropriato in Francia da quelle stesse riforme auspicate a parole, attraversa un brutto momento.
A questo punto Isabella comprende che il suo futuro di “femme savant” sta nelle mani di uno dei suoi corteggiatori più discreti. Di 10 anni maggiore di Lei, scapolo, Iseppo Albrizzi è uno degli uomini più potenti e ricchi della città. Patrizio veneto di idee libertarie, avvocato brillante, nonostante sia stato il segretario della Loggia massonica di Venezia, ha scalato ugualmente tutti i gradi della Magistratura fino al massimo incarico di Inquisitore di Stato. Nel luglio del 1795 Isabella ottiene l’annullamento di matrimonio dal recalcitrante e incolpevole Marin e, nel marzo del ’96, con l’approvazione di Denon che da Parigi si congratula e le rinnova i sensi del suo amore imperituro, sposa l’Albrizzi.
Così, mentre la Serenissima vive schizofrenicamente la propria resa a Napoleone, per la trentaseienne Isabella la vita ricomincia da capo. Tra vecchi e nuovi amori, viaggia, studia, scrive e assapora anche le gioie di una seconda maternità. Ma è sempre il suo “salotto” a concentrarne la massima attenzione.
Ora la cornice è quella a lungo sognata. A palazzo sul Canal Grande, d’inverno, e nella villa sul Terraglio (Treviso) per il resto dell’anno, oltre che il ritrovo di re e regine, studiosi, diplomatici e viaggiatori a vario titolo, esso diviene uno dei luoghi prediletti dal dibattito culturale che, nel trapasso dal secolo dei “Lumi” a quello “Romantico”, coinvolge i maggiori rappresentanti della società intellettuale, da Byron a Foscolo, da Alfieri a Cesarotti.
Isabella si spegne a Venezia nel settembre del 1836 ma sarà sepolta nella chiesetta dell’amatissima villa di Mogliano (Treviso) che ancora oggi porta il suo nome. Il libro è introdotto da un saggio storico di Alvise Zorzi e da uno di Elena Brambilla su “Donne letterate in Veneto tra Sette e Ottocento” ed è corredato da un indice nominale e da una guida alla villa Teotochi-Albrizzi e al suo parco.
In copertina: Palazzo Albrizzi a Venezia in un dipinto di Antonietta Brandeis – Isabella Teotochi Albrizzi ritratta da Elisabeth Vigèe-Lebrun
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