“L’arte non è un mestiere, è la maniera con cui si esercita un mestiere”. Jean Renoir
Determinate da una ritmica interna che si dispone per ascisse e ordinate, per Zug oder Druck, per generose obliquità, per intrecci intrusioni intromissioni influssi incrinature interferenze increspature, le superfici messe in campo da Antonio Secci accolgono con eleganza la sfida dell’estroflessione, portando la pittura a un livello plastico la cui ulteriorità è data dalla volontà di spazializzare, di creare risalto, risacca e risalita cromatica, arricciatura, pieghettatura. In tutto il suo lavoro, almeno quello più strettamente analitico che nasce a partire dal 1966 (anno in cui si trasferisce a Milano sotto indicazione di Gianni Dova e Guy Haloff), è possibile individuare una pratica linguistica dove la mano calca e calcola, dirige, taglia, traccia, impone non la forma (proposizione banale de tous les peintres, a detta di Barthes) ma la figura, l’unità elementare che custodisce e sprigiona la storia delle idee, lo sguardo della civiltà di fronte al mondo, al modello della vita concreta, al paesaggio in cui l’occhio si consuma per farsi di passaggio visione accecante, delectatio, apparizione del tutto, moltiplicazione dell’unità e unificazione della molteplicità.
Compattata sul piano di lavoro mediante un attento gioco morfemico e cromemico che recupera il gesto anancastico per tentare una più ricca articolazione di segni e per liquidare definitivamente il reale mediante spericolate (modellate, raggrumate) geometricità, la pittoscultura di Secci è fatta di schegge, di arature, di fuoriuscite, di pulsazioni, di vibrazioni che lasciano trasparire una velatura, una pungente curvatura e ricurvatura barocca della materia – «le Baroque ne renvoie pas à une essence, mais plutôt à une fonction opératoire, à un trai» che «pli sur pli» si protrae, «va à l’infini» ha apostrofato Deleuze1 – che introduce a una modularità strutturale dove si definiscono via via un insieme di elementi (anche e soprattuto intellettuali) che non comportano alcuna interpretazione della vita, piuttosto una rivisitazione costante di elementi mnemonici legati ora al paesaggio, ora a atmosfere e sensazioni e emozioni suscitate da un qualunque elemento realistico (il mare, ad esempio, è per Secci, lo ha indicato Cristiana Collu nel 2008, «il corridoio blu che unisce e non divide il mondo»)2, rivisitato, ricalibrato secondo ordini linguistici che puntano esattamente sulla forza in movimento della staticità del quadro.
Se in opere quali Metamorfosi (1968), Time is money (1968), Vibrazione astrale ( quella del 1969 e quella del 1970), i vari Fulmini (1969), Nascita della materia (1971), Struttura spazio tempo (1971) o Spazialità attiva (1973) la linea della ricerca era orientata sulla forma sul taglio e poi sullo strappo traumatico, a partire dalle vibrazioni (Vibrazione del 1973 e Vibrazione del 1974), dagli Spazi espansivi (1974) e dagli squarci (dal primo Squarcio del 1974 in poi) il lavoro entra nell’ottica di una costruzione più architettonica che, ad avvertirlo è stato Maurizio Sciaccaluga, trasforma «la dicotomia segno/materia in un confronto violento tra superfici»3, tra piani inclinati di lavoro, sovrapposti e stratificati per dar luogo a punti di fuga, a qualcosa che l’opera lascia intravedere per frammenti e allusioni attraverso varchi, fratture, zigrinature che si aprono nella compattezza grinzosa della superficie.
A un primo momento più schiettamente spazialista nato dalla frequentazione, a Milano, di figure come Lucio Fontana e Roberto Crippa, che lo spingono su modelli d’un’arte connessa al tempo e allo spazio (mai del tutto persa di mira questa traiettoria e anzi ricalibrata mediante giochi basati su patterns e reazioni ottico-psicologiche) segue un momento fatto di puri ritmi astratti che provengono, mi pare, da una qualitativa lettura neoplastica, ossia dalle ricerche compiute da van Doesburg, da Mondrian, da van der Leck, da Vilmos Huszar.
Nella poetica di Secci riacquista infatti importanza primaria il momento progettistico, costruttivistico dell’opera, che oscilla dal sentire al progettare e dal progettare al fare secondo una consapevole presa di posizione che si situa sulla possibile programmazione strutturale dell’opera, sulla sua espansione interna e sul suo continuo riconnettersi con la realtà da una latitudine geometrica, cromaticamente croccante e squillante, a volte – è il caso di uno straordinario Squarcio del 1999 dove intravediamo la pieghettatura di banconote – anche legata a un giocoso e tagliente gusto popular.
Dopo i metalli degli anni settanta usati in funzione del colore (il bianco con ottone o rame, il rosso con l’alluminio), le esplosioni e le lacerature successive lasciano il posto a più recenti sovrastrutture di carta plastificata (si pensi agli Squarci per uno spazio possibile degli ultimi decenni, 2002 ad oggi), lavorata e ripiegata più volte fino a creare una lenta meditazione, oggettiva e personale, sui rapporti dialettici tra forma e spazio, tra chiusura e apertura, fino a rendere palese un’intensità concreta di effetto, ciò che appunto fa del quadro in sé una struttura dinamica.
Criticamente consapevole dell’ambito in cui si muove, Antonio Secci pone dunque fiducia negli strumenti del fare (tutti quei fili di nylon stesi con cura prevedono sempre una tessitura, un attrito, un ritmo, un dinamismo, un intervallo, un diastema, una composizione sonora oltre che visuale), in una articolazione interna di elementi grammaticali legati dall’idea di costruire, di riflettere analiticamente, di spingere sull’esperienza del corpo (della mano) e di elaborare un dispositivo in cui la pittura non fa del movimento il tema del quadro, ossia l’oggetto della rappresentazione, ma lo identifica con la forma stessa del quadro, inteso come un sistema di relazioni interne, interdipendenti, tra le varie unità che lo compongono.
Lo strappo, la costruzione che si fa vibrazione e ambientazione, lo spazio possibilmente e mentalmente percorribile (uno spazio più umano e più vivibile, l’esatto opposto del taglio di Fontana più esattamente), l’immota mobilità dell’opera intesa anche come narrazione poetica e come piacevole evocazione lirica, sono, nel lungo e lento lavoro di Antonio Secci (Chris Steinbrecher parla, non a caso, di filosofia della lentezza)4, elementi, ingredienti di un racconto lineare che scava nella memoria per riappropriarsi del vuoto e riempirlo di attimi, di pensieri senza nome, di reminiscenze e impressioni, di scintille e lievi melancholie philologiche, di idee che entrano visivamente nell’intimità delle ore, dei giorni, dei mesi, degl’anni.
Antonello Tolve, professore all’Accademia di Belle Arti di Napoli
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