All’atto della scoperta di una «faretrina» nuragica nella tomba 45 della necropoli di Poggio alla Guardia di Vetulonia, nel corso degli scavi condotti da Isidoro Falchi nel 1884, si ebbe la documentazione diretta di un rapporto, essenzialmente marittimo, tra le comunità nuragiche responsabili della produzione della categoria di bronzi delle «faretrine» nuragiche e le comunità villanoviane dell’area di Vetulonia.
In realtà furono le successive scoperte, nella stessa città, di bronzi e ceramiche nuragiche (di produzione e di imitazione), a partire dalla navicella della Tomba del Duce scavata nel 1886, a rivelare con chiarezza il legame tra l’isola e l’Etruria, illustrato magistralmente da vari autori tra cui Antonio Taramelli, Giovanni Lilliu, Fulvia Lo Schiavo, Raimondo Zucca ed altri illustri archeologi.
In questa rivista verranno presentate alcune delle «faretrine» nuragiche in relazione, principalmente, alle località di rinvenimento in Sardegna ed in Etruria, onde verificare la possibilità di definizione delle rotte tra singoli scali sardi e scali dell’Etruria.
Il fondatore dell’archeologia sarda nel secolo XIX, il canonico Giovanni Spano, è il primo studioso a dedicare la propria attenzione a tali manufatti, nel 1855, in relazione al rinvenimento di un esemplare nel corso dei suoi scavi nella necropoli meridionale di Tharros nel 1852, confrontato con altri esemplari provenienti dagli scavi tharrensi del direttore del Museo di Cagliari, Gaetano Cara, e ad un ulteriore esempio della collezione del generale d’Arcais.
Lo stesso Spano rilevò il rinvenimento di un “talismano bellico …quasi simile a quelli che si trovano in Tharros” nel sito di Santa Maria di Valenza, presso Nuragus, interessato da un insediamento nuragico precedente la fondazione nel II sec. a.C. della città di Valentia.
Le «faretrine» sono state così definite a partire da Ettore Pais nel 1884 in quanto parrebbero evocare una faretra in materiale deperibile provvista di armi su ognuno dei due lati. La stessa Fulvia Lo Schiavo ha posto l’accento sulle «faretrine» nuragiche rinvenute in Etruria settentrionale, sottolineando la cronologia elevata del trasferimento dei bronzi e degli altri manufatti nuragici dalla Sardegna alle comunità villanoviane della seconda metà del IX sec. a.C. – inizi dell’VIII sec. a.C.
Raimondo Zucca, in uno studio del 1987, ha preso in esame, nel quadro dei bronzi nuragici rinvenuti a Tharros, anche la classe delle «faretrine», proponendone l’attribuzione a personaggi di alto rango sociale di estrazione nuragica inseriti in seno alla comunità fenicia di Tharros.
Lo scrivente ha presentato la propria ricerca sulle «faretrine» nuragiche arricchita da nuovi esemplari inediti, proponendo un inquadramento culturale e cronologico di questa classe di bronzi nuragici, mentre in occasione della mostra “Gli Etruschi e la Sardegna. Un’antica civiltà rivelata” (a cura di Fulvia Lo Schiavo, Paola Falchi, Matteo Milletti) organizzata presso il Museo del Territorio di “Sa Corona Arrubbia” (Lunamatrona), è stato presentato il Catalogo con un contributo frontale sulle «faretrine» nuragiche dell’archeologa Paola Falchi.
Le «faretrine» in bronzo a piastra triangolare erano dotate in origine di due occhielli (in molte di esse non sono più presenti ma è possibile confermarne l’area di frattura), ottenuti con la tecnica della fusione a cera persa, con la rappresentazione di armi, ossia stiletti in numero da uno a quattro (o raramente di un pugnale sul lato A e di un pugnale sul lato B) caratteristici dell’artigianato nuragico che dà luogo, presumibilmente, a rielaborazioni in Etruria settentrionale, al pari di altre classi di bronzi e di ceramiche nuragiche.
La straordinaria rarità dei contesti chiusi datati in rapporto alle «faretrine» propone una oggettiva difficoltà all’inquadramento cronologico di questa classe di bronzi nuragici che non sembrerebbero andare aldilà della metà del VII sec. a.C.
I sardi eventualmente accolti nei contesti fenici, ma anche etruschi, poterono continuare a presentare simboli della loro antica cultura: così potrebbe spiegarsi lo straordinario rinvenimento, nella necropoli fenicia a incinerazione di Bithia, di una guaina, supposta in cuoio, con tre stiletti e un pugnale funzionali. Anche se il cuoio della guaina si era ormai degradato, si poté finalmente dimostrare la stretta connessione degli stiletti e del pugnaletto, sovrapposti l’uno agli altri, ripetendo cioè nella realtà quello che vediamo raffigurato negli esemplari bronzei delle «faretrine» in miniatura. Nella stessa necropoli di Bithia si individuarono altre sepolture, sconvolte, con pugnaletti indigeni e stiletti, e i rinvenimenti di stiletti nuragici è documentato in tombe fenicie di Tharros e di Othoca, risalenti queste ultime all’ultimo quarto del VII sec. a.C.
Il pugnaletto ad elsa gammata, documentato nelle «faretrine» è attestato sia nella sua realizzazione funzionale, sia in quella miniaturistica, sia ancora come insegna di personaggi di rango nella bronzistica figurata nuragica.
Nel corpus delle sculture della Sardegna nuragica di Giovanni Lilliu il pugnaletto ad elsa gammata (vedi faretrina dell’Antiquarium Arborense) è attestato nelle rappresentazioni di capotribù, di statuette di oranti /offerenti, di soldati e sul petto del giovane principe de La madre dell’ucciso. Se si utilizza tale chiave di lettura, il giovane principe del bronzetto noto appunto con questo nome, è tenuto in grembo dalla madre e, avendo verosimilmente una dignità di futuro capo, può fregiarsi di un pugnale ad elsa gammata.
Ecco pertanto che più che di una madre che regge in braccio il proprio figlio defunto è ipotizzabile che possa invece riferirsi all’immagine dell’epifania, in seno alla comunità, di un nuovo capo, della perpetuazione di una stirpe di aristoi, poiché il pugnale ad elsa gammata, come afferma Fulvia Lo Schiavo, “è plausibile che si trattasse non solo di un’arma personale ma quasi di un segno dell’ingresso del giovane nella comunità degli adulti, vista la sua larghissima diffusione, al di là delle distinzioni economiche e sociali. La funzione e il significato di quest’arma nel mondo nuragico, sembrerebbe paragonabile a quella del rasoio, nell’età del Bronzo Recente e Finale e nell’età del Ferro nella Penisola, che in Sardegna, salvo pochissimi esemplari di tipi e provenienze diversi, non sono rappresentati”.
La distribuzione dei rinvenimenti di «faretrine» in Sardegna evidenzia l’amplissima concentrazione nell’area centroccidentale dell’isola, con una netta prevalenza del centro di Tharros e più genericamente del Sinis e dell’Oristanese. Sono inoltre attestati a Tharros o nell’Oristanese «faretrine» di alto artigianato artistico e, se non imputiamo alla casualità la ricchezza delle testimonianze di «faretrine» a Tharros e nel Sinis, dovremmo ipotizzare che nel quadro dei rapporti fra Sardegna ed Etruria anche le comunità nuragiche dell’area del Golfo di Oristano settentrionale poterono intessere legami con l’Etruria settentrionale.
In Etruria le «faretrine» si riscontrano nell’agro di Populonia e in quello di Vetulonia, inquadrandosi nella rete di rapporti fra sardi ed etruschi attivi fin dal bronzo finale.
Resta ancora aperta comunque la discussione sul reale significato di tali monili che, per la loro originale forma e iconografia, non ne consentono proprio un puntuale significato. Attualmente possiamo ammirare molti di questi preziosi e rari bronzi al Museo Archeologico Nazionale di Cagliari e presso l’Antiquarium Arborense di Oristano per quanto attiene i materiali provenienti dai contesti sardi mentre presso i musei archeologici di Firenze e Siena per i materiali dei contesti etruschi.
Ancora altre «faretrine» trovano la loro collocazione espositiva all’estero; presso il British Museum di Londra o quello di Bonn e ancora di Copenaghen, a causa dei traffici, a volte illeciti, di materiali archeologici avvenuti nel secolo XIX che hanno sempre visto la Sardegna coinvolta in uno scambio differente da come anticamente veniva praticato; gli oggetti di cultura materiale della nostra passata civiltà costituivano già in età antica oggetto di commercio, proprio per l’alto valore non solo intrinseco dell’oggetto ma per il forte simbolismo che essi emanavano.
Ancora oggi è possibile trovare in esse chiavi di lettura che travalicano il semplice esame autoptico, per addentrarsi in forti contenuti esoterici che, come spesso si evince dagli studi, erano un importante patrimonio delle antiche ed evolute culture.
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