Una terra che, per lunghi periodi storici, è rimasta ai margini delle grandi correnti di civiltà (un’isola-deposito, luogo della perifericità e dell’isolamento, dunque) ma che, in altri periodi, è stata il teatro in cui le diverse civiltà fiorite nel Mediterraneo si sono incontrate e talvolta scontrate, comunque si sono misurate: insomma un’isola-crocevia.
La Sardegna dunque non è stata sempre così isolata e remota come si è portati a pensare. Il mare, prima ancora che i mercanti fenici vi approdassero, aveva traghettato genti e popoli di altri lidi (sicuramente i micenei e poi i filistei) innescando i germi che favorirono l’affermarsi di diverse culture. Gli archeologi ci informano che gli antichi abitatori della Sardegna entrarono in contatto con popoli anche assai lontani: si pensi che le prime testimonianze della presenza nell’Isola dell’ambra del Baltico risalgono al XIII secolo avanti Cristo.
Posta al centro del Mediterraneo occidentale – tra l’Europa, l’Africa e il Medio Oriente – la Sardegna è stata da sempre un crocevia di popoli e civiltà che ha favorito l’incontro di etnie e culture diverse. In tale contesto la riviera non è stata solo, e non ha rappresentato esclusivamente, una linea di confine geografico, tra la terra emersa e le acque, ma ha costituito anche il luogo di inizio della comunicazione vera, quella che unisce i diversi e dà un senso più autentico e profondo alla relazione.
Tra i protagonisti di questo movimento – nell’antichità classica – troviamo anche quei “popoli del mare” che, seguendo la linea utopica e perigliosa dell’orizzonte, costruirono le premesse per un rapporto più ricco tra le terre. Il mare creò la nostalgia forte della patria “lontana” ed arricchì lo spirito distaccando l’uomo dalla fissità della materia per gettarlo nell’agone della storia, luogo senza rive, aperto ad uno sviluppo illimitato e discontinuo. Il mare, aprendo l’uomo all’esperienza dell’infedeltà e del distacco, ha reso incerta – ma anche più grande e complessa – la fedeltà e l’idea del ritorno.
Nell’antichità classica il Mediterraneo doveva essere un mare grande e terribile, sicuramente più insicuro e pericoloso dei nostri oceani, attraversato da pochi intrepidi naviganti dediti al commercio ed alla guerra. Per capire il Mediterraneo di allora occorre compiere una mutazione profonda. Occorre restituirlo alla sua dimensione autentica, quella originaria, che poteva essere percepita dall’uomo del passato: non una via di comunicazione ma “un limite, una barriera che si estende fino all’orizzonte, come un’immensità ossessiva, onnipresente, meravigliosa, enigmatica” .
Il mare di allora era sconfinato e, soprattutto, rappresentava un ostacolo che divideva le terre e gli uomini che vivevano sulle sue sponde; poi, con la rivoluzione dei trasporti, si è come accorciato, sempre di più, al punto da apparire come un grande lago. Ma nell’antichità non era così. Il mare era un limite, una linea di confine invalicabile destinata a segnare – nel corso dei secoli – il difficile rapporto delle popolazioni insulari e rivierasche con l’esterno, dando vita ad una dialettica complessa fatta di aperture e di chiusure. Per i sardi il mare è stato, a seconda delle epoche storiche, fattore di isolamento e finestra sul mondo.
Comunque siano andate le cose, è attraverso il rapporto col mare che la Sardegna ha avviato il suo processo di sviluppo. Del resto anche i nuraghi, le possenti torri tronco-coniche realizzate con enormi massi di pietra, se per un verso costituiscono l’espressione del carattere “originale” della più antica cultura materiale dei sardi, d’altro canto, partecipano a quel ciclo del megalitismo e della grande statuaria in pietra che, a partire dal IV-III millennio a.C., si diffonde un po’ in tutto il bacino del Mediterraneo ed in Europa e che trova importanti tracce nella cultura minoica e micenea. La Sardegna, in quell’alba della nostra civiltà, era dunque meno “chiusa” di quanto si possa supporre e, soprattutto, aveva già instaurato un buon rapporto col mare.
Forse a Cala del Vino, a pochi chilometri da Alghero, già in epoca nuragica, era in funzione un porto. Anche a Cala Sisine, in territorio di Baunei, sarebbe stato presente un porto nuragico che avrebbe rivestito un ruolo di primaria importanza per il commercio dei cereali e dei metalli. Altro scalo probabilmente operava a Cea, vicino a Barisardo (in prossimità di Nuraghi Nieddu): era destinato alla vendita della ceramica prodotta in tale zona (sono stati ritrovati i resti di un forno). E ancora – sempre in Ogliastra – l’approdo di Solki, l’attuale Girasole, era importante per il commercio dei prodotti dell’agricoltura e della pastorizia ed in particolare delle pelli. Si tratta di ripari naturali che, con piccoli adattamenti, potevano divenire (e forse erano diventati) dei veri e propri porti.
Tutto ciò lascia supporre che la vocazione marinara dei sardi sarebbe ben anteriore rispetto all’arrivo di filistei e fenici. Del resto il percorso che va da Tiro a Cadice è disseminato di stoviglie nuragiche, fatto che dovrebbe confermare l’esistenza di una marineria sarda. Forse sarebbero stati gli antichi shardana a far conoscere ai costruttori dei nuraghi le regole per sfruttare i venti e le correnti ed a trasmettere la cultura del mare. Fatto sta che dal mare (forse proveniente dalle miniere dello Zimbabwe o dalle Isole britanniche) arrivava lo stagno che, fuso col rame, serviva per ottenere il metallo necessario per realizzare le armi e i bronzetti. E ancora, perché non considerare il fatto che in diverse navicelle nuragiche sono fedelmente riprodotti animali (ad esempio antilopi) che non hanno niente a che vedere con la fauna della Sardegna?
In tale contesto i nuraghi “costieri” potrebbero essere stati utilizzati anche come punti di riferimento a terra per indicare ai naviganti la rotta da seguire per guadagnare l’approdo evitando le secche e gli scogli affioranti: insomma dei fari. Ma, se così fosse, le navicelle in bronzo risalenti al periodo nuragico potrebbero essere dei veri e propri modelli di navi esistenti all’epoca? Il mistero resta perché quei reperti narrano le vicende di un popolo che non ebbe la possibilità di trasmettere la propria storia con la parola scritta.
Peraltro la costante apertura della Sardegna al mondo mediterraneo è confermata anche dall’altra grande manifestazione architettonica “originale” fiorita in questa terra, vale a dire il romanico delle basiliche che tuttora punteggiano le grandi solitudini delle nostre campagne. Infatti tale cultura è meno autoctona di quanto si possa pensare posto che i monaci dei diversi ordini benedettini, che dopo il Mille si insediarono nelle nostre vallate grazie alla benevolenza dei giudici, esprimevano delle regole del costruire ed una sensibilità maturate altrove. Dunque isola-deposito ma anche isola-crocevia per riprendere la distinzione cara a Febvre. Come dire che l’insularità, per i sardi, non è stata sempre e solo causa di isolamento.
E non poteva essere altrimenti posto che il Mediterraneo – come ha efficacemente dimostrato Fernand Braudel – ha costituito, nel corso dei secoli, non solo il teatro privilegiato di conflitti, razzie e scontri epocali (si pensi alla feroce battaglia di Lepanto del 1571 che vide la partecipazione di 400 archibugieri sardi sotto i vessilli cristiani di don Giovanni d’Austria) ma anche uno straordinario spazio di convivenze pacifiche e operose tra le molteplici realtà politiche e le identità culturali che su di esso si affacciano. Il convergere dei tre vecchi continenti – l’Africa, l’Asia e l’Europa – ha modellato la sua vocazione di crocevia di popoli e civiltà e, nel corso dei secoli, ha dato vita a numerose affinità antropiche, storiche e artistiche tra le diverse popolazioni come pure ha posto in luce le inevitabili differenze.
Non vi è dubbio che il Mediterraneo costituisca da sempre uno dei centri più importanti dello sviluppo della civiltà umana posto che in tale spazio fisico – nel corso di una vicenda plurimillenaria che ha avuto inizio nella più remota antichità – hanno trovato espressione le più alte forme artistiche e culturali di cui sono stati capaci i popoli e, al tempo stesso, ha costituito il luogo di continui scambi tra diverse tradizioni ed esperienze storiche. Si sono così formati usi, costumi, culture, architetture, monumenti e paesaggi che, se da un lato connotano le specificità storiche e geografiche di ciascuno dei Paesi, dall’altro, evidenziano anche i molteplici comuni denominatori che caratterizzano la “mediterraneità” – come matrice d’appartenenza – e che identificano una comune koinè che conferisce a questa parte del mondo una specificità unica.
I segni di questa lunga storia emergono tuttora nel paesaggio costiero che testimonia le influenze fenicio-puniche, romane, pisane, genovesi, catalano-aragonesi, spagnole e piemontesi. Le molteplici tracce lasciate da questi popoli – attraverso una fitta e complessa rete di relazioni – tessono una preziosa filigrana che consente di leggere in trasparenza una realtà viva fatta di luoghi e toponimi, tradizioni e consuetudini, rapporti religiosi e scambi commerciali, incontri e scontri, arrivi e diaspore.
E’ stato il Mediterraneo a veicolare, a partire dal VII-VI millennio a.C., da Oriente a Occidente, la prima grande rivoluzione agricola e, dopo qualche millennio, il megalitismo – di cui ancora oggi restano importanti tracce – e poi, partendo dalle coste e dalle isole della Grecia, la filosofia (l’amore per il sapere) e con essa la dialettica, il confronto tra le opinioni, che sta alla base della democrazia e del diritto (espressione dell’esigenza di regolare il complesso agire umano). Nelle terre che si affacciano sul Mediterraneo hanno avuto origine anche le tre grandi religioni monoteiste: il cristianesimo, l’ebraismo e l’islam.
Il Mediterraneo peraltro non è solo il mare delle grandi civiltà del passato. Oggi il mare nostrum si pone sempre più come uno spazio di dialogo e di cooperazione, indispensabile banco di prova per pacifiche convivenze tra identità culturali, politiche e religiose diverse. E’ uno dei terreni privilegiati ove possono svolgersi i grandi processi di integrazione e unificazione continentale e planetaria. Questo grande mare – illuminato dai “fari” delle città storiche (Atene, Alessandria, Barcellona, Bisanzio, Genova, Venezia, Napoli, Siracusa, Cagliari e tante altre che vantano ricchi patrimoni di tradizioni e di cultura) – ancora oggi può dare molto allo sviluppo della Sardegna .
Negli ultimi anni, tra l’altro, il Mediterraneo ha gradualmente recuperato in pieno la sua centralità sui flussi di traffico marittimo mondiale e – sulla spinta di due fenomeni emergenti, come i porti di transhipment e la nuova organizzazione logistica in cui si sono strutturate le grandi concentrazioni armatoriali – é diventato un sistema integrato a rete caratterizzato dalla massima scorrevolezza nei flussi di interscambio. Oggi l’intero sistema logistico dei traffici mediterranei conosce uno sviluppo armonico del quale beneficiano anche i porti minori, collegati (direttamente o attraverso centri di transhipment) a tutte le aree strategicamente più importanti del mondo. Il recupero della centralità mediterranea emerge ancora di più ponendo in relazione la rete dei collegamenti transcontinentali (le cosiddette autostrade del mare) con lo sviluppo esponenziale di una rete parallela di collegamenti infra-mediterranei.
Al fine di consolidare e sviluppare le potenzialità di questo meraviglioso “continente liquido” (come amava definirlo Fernand Braudel), peraltro, l’economia non basta. Occorre agire anche sul fronte culturale: innanzitutto, attraverso una riflessione storiografica meno unilaterale, si dovrebbe andare verso la costruzione di un’identità europea capace di comprendere culture e apporti diversi come quelli derivanti dal confronto tra le diverse civiltà del Mediterraneo. In secondo luogo, e in parallelo, andrebbe sviluppato un confronto in grado di mettere a fuoco le identità culturali, etnostoriche, politiche, sociali e religiose delle diverse civiltà del Mediterraneo favorendo il dialogo tra le principali esperienze maturate in questi anni nelle diverse sponde di questo antico mare. Ciò perché nessuna cultura può pretendere di avere un rapporto privilegiato con la verità.
Sul piano politico – nonostante i contrasti, le contraddizioni e i focolai di guerra, purtroppo ancora presenti – si profila, con sempre maggiore urgenza per i popoli che si affacciano sul Mediterraneo, la necessità di trovare forme d’incontro e di collaborazione adeguate all’esigenza di dare una risposta concreta alla situazione esistente. Al riguardo si segnalano la “Conferenza permanente delle città storiche del Mediterraneo”, che si svolge tutti gli anni per iniziativa dell’Isprom, e la costituzione, promossa nel 2007 dal Comune di Cagliari, della “Rete delle Città murate del Mediterraneo” che registra la presenza di importanti realtà fra cui: Alicante, Melilla, Pafos, Savona, Castelsardo, Alghero, Cartagena, Sidone, Victoria, Kotor, Biserta. In altri termini si fa più forte la necessità di rafforzare la sfera dei valori comuni e della cooperazione all’interno di una società che – nel Mediterraneo e nel mondo intero – sarà sempre più multiculturale e plurietnica.
Le distanze a volte sembrano enormi; ma così non è. Del resto i termini “arabo” e “ebreo” – che paiono esprimere due mondi distanti e contrapposti – dovrebbero derivare entrambi da “habiru” che significa nomade. Forse allora é tutto incredibilmente più semplice e il mare nostrum, ripulito dalle incrostazioni della retorica, può davvero unificare civiltà e popoli.
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